Sono il papà di Ugo che ha tre mesi. Sono preoccupato perché in casa mia moglie, mia suocera e tutti i nonni, quando si rivolgono al bambino fanno le moine. Parlano in falsetto, come fossero rimbambiti che parlano a un rimbambito. Io invece mi sforzo di parlargli normalmente, per evitare una distorsione della comprensione. Ma se ci si comporta come fa mia moglie, con questo modo di parlare, non è che il mio Ugo cresce un po’ tonto?
Rassicuriamo subito il papà di Ugo, il suo bambino non crescerà ‘tonto’, anzi, questa modalità di comunicazione favorirà lo sviluppo cerebrale dei primi anni di vita. Quello descritto da questo padre non è un parlare in ‘falsetto’, gli studiosi lo hanno definito ‘motherese’, in italiano potemmo chiamarlo ‘mammese’. E’ la modalità di approccio vocale che un adulto sensibile e coinvolto usa per catturare l’attenzione di un bambino piccolo, ancora incapace di comprendere il senso delle parole. Viene utilizzata, in maniera inconsapevole, la componente prosodica del linguaggio, cioè il suono, il ritmo, la melodia interna alla frase: in pratica si producono toni più alti, con vocali allungate, privilegiando i monosillabi e inserendo numerose pause.
Recenti ricerche hanno dimostrato che il linguaggio recettivo (quello che permette di comprendere il significato delle parole) si sviluppa precocemente, intorno ai sei mesi di età; la sillabazione ‘musicale’ del motherese, migliorando l’attenzione e il coinvolgimento emotivo del bambino, agisce potenziando la comprensione e l’apprendimento; fin dai primi mesi è quindi possibile cogliere il senso e il sentimento di chi parla, sperimentando una comunicazione profonda.
Il motherese, inoltre, si accompagna alle quotidiane manipolazioni di cura, come il cambio del pannolino o l’alimentazione o l’intervento consolatorio. Attraverso la voce, l’adulto riesce a tranquillizzare e rassicurare oppure ad attivare ed eccitare, perché il suono emesso dalla bocca è sempre accompagnato e rinforzato da gesti ed espressioni del viso.
Probabilmente questo padre trascorrere poco tempo con il suo bambino (per motivi di lavoro o perché mamma, nonni e zie gli lasciano poco spazio), se partecipasse in maniera più attiva all’accudimento di Ugo, quasi senza accorgersene, inizierebbe anche lui a modulare la propria voce in maniera più musicale; immediatamente il figlio gli invierebbe segnali di gradimento e di interesse che rinforzerebbero questa sua particolare comunicazione verbale.
E’ molto comune sottovalutare la competenza uditiva del bambino. Oggi sappiamo che già dalla metà della gravidanza l’udito è ben sviluppato e il neonato percepisce la mamma proprio attraverso i suoni che produce: il battito cardiaco, il respiro, i rumori intestinali, la voce che viene trasmessa dall’interno. Il liquido amniotico filtra i suoni esterni e trasforma in vibrazioni quelli interni. Prima di nascere viviamo immersi nei suoni, al punto che dopo il parto manca del tutto l’esperienza del silenzio. Molto acutamente lo psicanalista Franco Fornari ha scritto: ‘In principio era il suono, il suono era presso la madre, il suono era la Madre’.
Il ‘motherese’ si inserisce, quindi, nella grande competenza uditiva del bambino; per lui il suono musicale rappresenta un bisogno profondo in grado di favorirne l’armonico sviluppo cerebrale.
Anche le ninne-nanne e le musiche/canzoni ritmiche aiutano a crescere e rappresentano un’esperienza molto importante. Dobbiamo però fare attenzione, perché nella nostra voce il bambino può cogliere anche tonalità ansiose o preoccupate, nervosismo o disagio emotivo. La voce di una mamma depressa può contagiare negativamente il suo piccolo, che si aspetta invece un suono, e una mimica del volto, del tutto diversi.
Se nella famiglia sono tutti coinvolti e appassionati per il nuovo piccolino, immagino che anche le canzoncine e le filastrocche siano ampiamente utilizzate. Ugo, ancora prima di nascere, ha iniziato ad ascoltare e a memorizzare i suoni. Gli esperimenti di neuroscienze hanno mostrato che fin dai primi giorni di vita il neonato riconosce la voce della mamma, memorizza il suo idioma e lo distingue dalle altre voci. I neonati sono anche interessati alla musica melodica, che attiva i centri cerebrali del piacere, mentre ascoltando suoni ‘stonati’ il coinvolgimento del loro cervello è decisamente inferiore (anche qualitativamente).
Da alcuni anni è attivo un progetto per fornire ai genitori strumenti per utilizzare voce, suoni e musica nelle normali mansioni di accudimento: si chiama ‘Nati per la musica’ e sul sito che promuove l’iniziativa è possibile acquisire informazioni e materiali utili.
Crescendo il bambino inizierà lui stesso a produrre suoni, all’inizio con la lallazione e poi con le prime parole; più avanti si divertirà a canticchiare e poi a produrre rumori percuotendo e battendo; sarà molto interessato anche a ballare, cioè a muoversi musicalmente.
I genitori sufficientemente coinvolti potranno trovare in questo mondo di suoni e ritmi una piacevole e utile occasione di relazione affettiva con il bambino.
La domanda di questo papà sollecita, però, anche una breve riflessione sul ruolo del padre fin dalle prime fasi di accudimento. Escluderlo, o lasciarlo ai margini, oppure lasciarlo ‘scappare’ e non fornirgli occasioni di interazione con il figlio, impedisce che si sviluppi in lui un’adeguata affettività.
Il padre non deve diventare un ‘mammo’ (al bambino non servono due mamme), ma deve poter esercitare un suo maternage al maschile. Le neuroscienze anche su questo ci vengono in aiuto e ci forniscono importanti indicazioni: si è scoperto che anche i papà, se partecipano attivamente alle cure del piccolo, producono gli stessi ormoni delle mamme, in particolare ossitocina e prolattina. Questi ormoni, sono prodotti dal cervello, e posseggono numerose funzioni: intervengono nel rapporto sessuale, nel parto, nell’allattamento e in ogni comportamento di cura, nella femmina ma anche nel maschio (se pure con modalità del tutto specifiche e individuali).
Il padre di Ugo rischia di rimanere ‘freddo’, di non accendersi e di non innamorarsi del suo bambino; per questo ha bisogno di tenerlo in braccio, di sentire l’odore della sua pelle, di guardarlo negli occhi e di farsi guardare. I sensi del papà hanno bisogno di essere sollecitati e gratificati e la comunicazione del corpo deve diventare prassi quotidiana. Ugo farà così esperienza di mamma ed esperienza di papà; non ci sarà confusione o conflitto, ma saprà distinguere e poi fare sintesi, perché già dopo i primi mesi imparerà a ‘relazionare con una relazione’. Lentamente arriverà a sperimentare su di sé quel legame d’amore che ha portato i suoi genitori a farlo vivere.
Tratto da “Crescere un figlio”, Mondadori 2013